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Sono sono parole?

Avevo cinque anni quando zio Arturo, di certo non brillando per originalità, mi chiese cosa volessi fare da grande. Io alzai il mento e risposi sicura: La veterinaria!

 

Ricordo la delusione che provai quando mi accorsi che le mie parole non avevano sortito l’effetto sperato. Lo zio assunse un’espressione a metà strada tra la perplessità e lo scherno, prima di sentenziare: Non puoi, è un lavoro da maschi!

 

Rammento ancora la frustrazione che provai prima che la logica cristallina dei miei cinque anni mi conducesse alla conclusione che zio Arturo stesse mentendo, che non era possibile fosse un lavoro da maschi, visto e considerato che io, femmina, desideravo farlo. E mi convinsi ancora di più della correttezza delle mie elucubrazioni quando pensai che esisteva persino la parola per designare la professione dei miei sogni: veterinaria. Così archiviai la questione con un’alzata di spalle, consegnando al vecchio zio l’etichetta di bugiardo e al mio sogno quella, splendente, di fattibilità.

 

Questo episodio della mia infanzia mi è tornato in mente qualche settimana fa, in occasione di un incontro con degli studenti ai quali stavo illustrando l’insidia degli stereotipi di genere che ereditiamo da piccoli, quando non abbiamo ancora un pensiero critico in grado di destrutturarli. Quando da grandi - auspicabilmente – il nostro pensiero critico gode di sana e robusta costituzione, il danno è fatto, perché gli stereotipi che abbiamo assunto inconsapevolmente sono già stati assorbiti. Tirarli fuori, analizzarli e sconfessarli richiede un lavoro che non sempre si ha la voglia o l’opportunità di condurre.


D’altronde gli stereotipi servono a semplificare la realtà, ragionando per assunti e macrocategorie. Così può capitare che, di fronte al complesso ragionamento secondo il quale le parole sono in grado di modificare la percezione della realtà e sono, di conseguenza, fondamentali, ci si appigli al ben noto fenomeno del benaltrismo, asserendo annoiati che “ci sono cose ben più importanti di cui occuparci”, eludendo in modo furbo la questione e strappando spesso applausi compiaciuti.

 

A chi importa se mi faccio chiamare direttore o direttrice? In che modo una parola mi rende più o meno competente? Innanzitutto la parola che mi definisce dice che io ESISTO. Di recente è stato condotto uno studio su un campione di italiani ai quali è stato chiesto di indicare, tra quelli proposti, il numero delle avvocate e delle architette nel nostro Paese: la maggior parte ha indicato un numero di gran lunga inferiore a quello reale. Questo perché, declinando le professioni al maschile, cambia la percezione della realtà. Ancora, nel 2003 è stato condotto uno studio in alcuni Paesi europei[1], nel quale si chiedeva a un campione di persone di associare alla parola "ponte" degli aggettivi. I risultati sono interessanti: in Paesi come l'Italia e la Francia, dove "ponte" è un sostantivo maschile, le persone hanno usato gli aggettivi forte, solido e robusto. In altri Paesi, dove "ponte" è un sostantivo femminile, gli intervistati hanno associato aggettivi come bello, elegante, armonico. 

Sul legame a doppio filo che unisce il linguaggio al comportamento sono state condotte decine di ricerche scientifiche che hanno dimostrato, tra le altre cose, come i ragazzi più violenti posseggano strumenti linguistici scarsi e inefficaci, cosicché, essendo incapaci di “dire” la loro rabbia e la loro frustrazione, le agiscono attraverso comportamenti violenti.

 

La violenza di genere è solo l’ultimo anello di una lunga catena di discriminazioni che iniziano con le parole. E se è vero com’è vero che gli stereotipi linguistici non necessariamente determinano violenza fisica, è altrettanto vero che non esiste violenza di genere il cui terreno non sia stato preventivamente seminato di stereotipi. Inutile sottolineare l’assunto di espressioni come “sei mia” “mi appartieni”, “mia o di nessun altro”.

 

Dando per acclarato l'assunto secondo il quale le competenze non sono determinate dalle etichette linguistiche, e che essere donne non sia garanzia di competenza, né del suo contrario, è necessario ribadire che quello che non si nomina non esiste. E se oggi, di fronte a parole entrate solo di recente nel lessico quotidiano, come sindaca e assessora, non immaginiamo un esponente di sesso maschile, ma una rappresentante di sesso femminile, è grazie a un cambiamento al quale sono ancora refrattari molti uomini e persino tante donne che credono di legittimarsi declinando al maschile il proprio ruolo.

 

D’altronde è dagli anni Quaranta, a seguito del famoso Doll Test (che dimostrava come le bambine afroamericane preferissero le bambole bianche attribuendo loro persino qualità morali, oltre che estetiche) che sappiamo quanto i pregiudizi vengano interiorizzati, e spesso veicolati, anche da chi ne è vittima.

A dispetto di una strada per la parità lunga, in salita e lastricata di buone intenzioni, resta il fatto che la lingua sia una sorta di sismografo della nostra società, pertanto, quando quest’ultima cambia, è necessario che la prima cambi con lei.

 

Ecco, zio Arturo. Lo sguardo di stizza che ti ho rivolto quarantacinque anni fa voleva dirti esattamente queste cose. Le parole per farlo sono arrivate dopo.

 

[1] Boroditsky, L., Schmidt, L., & Phillips, W. (2003). Sex, Syntax, and Semantics. In Language in mind: Advances in the study of language and cognition, ed. D. Gentner & S. Goldin-Meadow, pp. 61- 80. Cambridge University Press.

 

Nota della Redazione


Bibliografia di Michela Bilotta:


In un’ora Dio lavora”, secondo posto al Premio Internazionale Nanà - giovani scrittori per l’Europa, organizzato dalla Avagliano Editore.

Racconto “Controtempo”, antologia “Due anni di Jack”.

Racconti “Sono solo parole”; “Allontanarsi dalla linea gialla”; “Un giorno bellissimo” - antologia “Ad alta voce”, a cura di Sara Rattaro.


Il suo libro La metrica dell’oltraggio, Jack Edizioni, attualmente in tour in tutta Italia, ha destato l’attenzione della stampa nazionale (Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano, Corriere del Mezzogiorno, Il Roma, Il Mattino, etc.) ed è entrato nell’elenco ufficiale dell’AIE (associazione italiana editori) come testo scolastico adottabile nelle scuole.

 

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