Rispetto. Parola abusata e spesso fraintesa. Si è soliti collegarla alla meritocrazia: il rispetto si merita; lui, lei meritano rispetto; io merito rispetto: sono di buona famiglia, beneducatǝ, ho valori rispettabili, ho qualità e successo, sono un re, sono un dio. Lo pretendo.
Non di rado però ciò che riteniamo merito nostro è dipeso più dagli altri che da noi stessi, dal contesto in cui siamo nati, vissuti, pasciuti, dalle risorse a cui abbiamo avuto l’opportunità di accedere, forse anche immeritatamente.
La pretesa di rispetto, seppur non è cosa cattiva, lo diviene nel momento in cui esprime arroganza. Il rispetto autentico richiede invece soprattutto onestà e umiltà. Riguarda la nostra umanità. Quando parliamo di rispetto intendiamo proprio questo: rispetto dell’umanità. Ma anche l’umanità, cos’è? Altra parola fraintesa e di cui si abusa. Astratta, quasi evanescente. Ce ne riempiamo la bocca di umanità – osservò qualcuno – senza capirne il senso. Tuttavia non c’è rispetto senza di essa e, viceversa, non c’è umanità senza rispetto. Il rispetto è un’esperienza, l’esperienza di un sentimento, un’esperienza tipicamente umana, generata dalla nostra mente nel suo manifestarsi nella nostra corporeità, in una duplice forma: rispetto dell’altro e rispetto di sé.
Muoviamo da una constatazione: non siamo né bruti, né angeli.
Non siamo esseri sensibili privi di ragione, né solo spirituali razionali, privi di sensibilità. Fernando Pessoa direbbe: siamo carne intelligente. Abbiamo desideri e bisogni che ci rendono vulnerabili e interessati ad agire per soddisfarli. Per esempio, trovandoci a passeggiare in un caldo pomeriggio d’estate, accaldati e assetati, ci ricordiamo con sollievo di possedere una riserva d’acqua nella borraccia. Possiamo soddisfare un bisogno. È un fatto della nostra psicologia immaginarci un fine per maturare un interesse ad agire. Agiamo perché mossi da. Un movente è qualcosa in virtù del quale agire diventa una prospettiva interessante. Possiamo finanche manipolare e intervenire sul mondo esterno, agire secondo i nostri interessi. Ma essendo dotati di ragione, siamo anche attrezzati a intervenire e modificare quel mondo in modo intelligente, così da far fronte alle urgenze della nostra natura animale. Soprattutto però siamo capaci di intervenire sui nostri stessi bisogni e interessi, organizzarli, articolarli, selezionarli. Possiamo insomma rappresentare noi stessi in modo intelligente, secondo un ideale.
Questo ideale che ci sta a cuore e che vorremmo realizzare possiamo dire che è l’ideale morale: un modo di rappresentarci come non determinati direttamente dai nostri interessi e desideri contingenti. Un ideale quindi di autonomia. Ed è questo che viene esperito sotto forma di rispetto: un’esperienza che ci contraddistingue come animali dotati di ragione e che ci espone a precise responsabilità verso noi stessi e verso gli altri.
Se fossimo esseri privi di sensibilità, razionali-non animali, non ci sarebbe scarto tra ragione e azione: l’azione scaturirebbe direttamente dalla ragione. Gli angeli non hanno bisogno di sentire l’autorità della morale per agire moralmente. I bruti non la concepiscono neppure. Se fossimo tali, non avremmo consapevolezza di alcuno scarto, i nostri comportamenti sarebbero istintivi. Angeli e bruti non avrebbero bisogno di pensare per agire: i primi sarebbero mossi spontaneamente dalla ragione, i secondi meccanicamente dai desideri.
Grazie alla complessità della nostra natura, invece, possiamo pensare prima di e per agire, prendere le distanze dai desideri che avvertiamo, resistere loro o accoglierli. Non ne subbiamo semplicemente la forza, non ne siamo mossi come burattini. Abbiamo risorse per esaminare criticamente la loro pressione e domandarci: dobbiamo conferire loro autorità? Ed è in questo atto di conferimento di autorità a un movente anziché a un altro, nell’adozione riflessiva di un interesse, che si esplica la nostra razionalità pratica. Ed è anche in questo modo che ci manifestiamo per quello che siamo. Diventiamo gli agenti che siamo nella nostra auto-rappresentazione: agenti autonomi. Costruiamo la nostra integrità in questo varco tra moventi e azione aperto dalla nostra riflessione. Per questo l’esercizio della razionalità pratica ci rende liberi, perché abbiamo la possibilità di agire sulla base di ragioni, ed è per questo potenziale che la nostra sensibilità risponde attraverso il rispetto. Un sentimento che ci è proprio. Ci distingue dai bruti, in quanto espressione di razionalità, ma soprattutto – e in modo più interessante – dagli angeli, perché non può non venire avvertito che come sensazione. Il rispetto è un sentimento che pertiene alla sensibilità corporea, sebbene generato dalla ragione. Il rispetto è la nostra intelligenza che si incarna, si fa sentire, percepire.
Tornando all’esempio della passeggiata, dell’arsura, della sete e della possibilità di bere, è necessario dire che seppure quest’ultima sia un movente per cui ci interessa agire, non scaturisce da essa necessariamente una ragione per agire. Supponiamo di incontrare sul nostro sentiero un maratoneta palesemente disidratato: ecco presentarsi a noi un ulteriore movente: offrire da bere all’assetato. Ma non ce n’è abbastanza per entrambi!, si potrebbe replicare. Oppure: dopotutto, se l’è cercata, chi glielo ha fatto fare di intraprendere una corsetta con questo caldo, privo di rifornimenti? Ma per quanto si cerchino alibi e si abbia un movente per bere, siamo consapevoli di non avere una ragione per farlo. Abbiamo invece una ragione (morale) per cedere l’acqua.
Come succede che questo movente si trasforma in una ragione per agire? È una scelta. Noi scegliamo un movente come ragione per l’azione e lo trasformiamo nel motivo per cui agire. Se scegliessimo di dissetarci anziché soccorrere il maratoneta, il nostro motivo per l’azione sarebbe auto-interessato. Ma il solo fatto di poter concepire l’azione di soccorrere, trascurando i nostri bisogni, ci mostra che non siamo determinati semplicemente da questi. Avere bisogni da soddisfare e desideri da realizzare non è l’unico modo in cui possiamo interessarci ad agire. Possiamo intraprendere un’azione mossi dal riconoscimento del bisogno altrui. E seppure decidessimo alla fine di negare l’acqua, non saremmo in ogni caso bruti. Stiamo comunque facendo uso della ragione, rappresentando noi stessi in un certo modo, stiamo prendendo in considerazione i nostri bisogni, desideri e interessi e, senza che ci determinino immediatamente, permettiamo noi a loro di farlo, intraprendiamo azioni per soddisfarli, conferiamo loro autorità. Negare l’acqua al maratoneta non sarebbe quindi un errore morale, perché ci equiparerebbe ai bruti, ma perché dimostrerebbe che stiamo impiegando male la nostra razionalità.
Ma i nostri bisogni e desideri hanno autorità su di noi e ci conferiscono direttamente un interesse e una ragione per agire perché ci appartengono, sono nostri. Per quanto questo sia vero, in quanto fanno parte della nostra vita mentale, non costituisce una base sufficiente per conferire loro l’autorità che hanno le ragioni per l’azione. Riconosce l’altro ci impone di soccorrerlo. Data la scarsità d’acqua, ciò implica un piccolo sacrificio. Ma questo non significa che l’altro conti più di noi, bensì che, viste le sue condizioni, il suo bisogno è più urgente. Riprendendo la frase evangelica, potremmo riscriverla così: date da bere a chi è più assetato.
Una simile conclusione, anche se in questo caso ha l’immediatezza dell’ovvietà, si può ricostruire e giustificare tramite un ragionamento, a cui si ricorre per determinare l’autorità dei moventi, e parte da un presupposto specifico: noi riconosciamo agli altri la stessa dignità che riconosciamo a noi stessi. Li riconosciamo come sorgente indipendente di richieste legittime. Questo riconoscimento ha due implicazioni. Pone un vincolo ineludibile alla nostra deliberazione. Le persone richiedono di essere prese in considerazione quando decidiamo che cosa fare. Non possiamo ignorare questa richiesta di attenzione o, per esempio, interferire con la loro autonomia. Ma ciò significa anche che noi stessi abbiamo l’autorità di fare tale richiesta, l’autorità di pretendere – questa volta sì, non in maniera arrogante – di essere trattati in un certo modo. Ecco cosa significa l’esperienza duplice del rispetto: rispetto dell’altro e rispetto di sé.
Pensare moralmente, costruire un ragionamento morale, significa intrattenere con gli altri una relazione di mutuo riconoscimento, dar loro pari dignità e pretendere da loro il rispetto e il riconoscimento della nostra dignità. È una relazione pratica, una relazione di conferimento reciproco di autorità. Il riconoscimento dell’altro è una struttura delle relazioni personali che definisce l’ambito della morale e il rispetto di sé è la considerazione appropriata di un valore intrinseco, indipendentemente dalle qualità specifiche che si hanno e dalle opinioni altrui. Pur essendo generato dalla relazione di mutuo riconoscimento non ne dipende, come non lo è dall’atteggiamento degli altri, né dalle nostre qualità e competenze specifiche.
Il rispetto di sé è diverso dalla stima di sé, o dalla stima per gli altri e degli altri, basate su apprezzamenti di qualità e competenze. Stima e autostima possono essere minate o nutrite da atteggiamenti e opinioni altrui, frutto a loro volta di valutazioni, convinzioni, credenze, interessi. Il rispetto invece è una relazione tra soggetti che si riconoscono reciprocamente autorevoli, a prescindere dal confronto di qualità e competenze. Sulla base del rispetto che abbiamo per noi stessi possiamo, in certi casi, risentirci delle critiche, reagire agli attacchi provenienti dagli altri, protestare che le nostre qualità e capacità devono essere apprezzate. Oppure, l’appropriata considerazione di noi stessi ci farà riflettere sulle critiche, ci suggerirà di considerare se la stima che gli altri ci tributano per certe competenze è meritata. Si ha rispetto di noi stessi quando ci si attribuisce un’importanza pari a quella dell’altro, non meno (come chi è incline al servilismo e alla falsa umiltà), né più (come chi è incline alla sopraffazione, alla superbia e all’arroganza). Per questo non può esserci rispetto di sé senza rispetto dell’altro e viceversa, senza riconoscere quella pari dignità propria del rispetto dell’umanità.
Un sentimento duplice, quindi, di cui facciamo esperienza, che è sì, di costrizione, auto-costrizione, un vincolo che ci poniamo, ma rivela anche qualcosa di rassicurante su noi stessi e sugli altri: la possibilità di criticare e provare a superare le nostre limitazioni, generando una rinnovata fiducia in noi stessi, negli altri e nell’umanità. È questa l’esperienza dell’autonomia che si esercita, si fa, in relazione agli altri, nell'incontro tra carni intelligenti.