Tutti seduti davanti a me, in file grossolanamente ordinate, distanziate nel rispetto delle indicazioni di sicurezza.
D dorme… chissà che fa la sera; lo chiamo più volte, ma non riesce a tenere gli occhi aperti.
F è già assorto nella rassegna stampa, alla ricerca di notizie che confermino il suo credo politico precocemente adottato.
P tiene d’occhio la morosa, che è attentissima, in prima fila.
G è pronto, penna in mano, come se si aspettasse da me non so quale rivelazione.
Chiamo la loro attenzione sull’argomento del giorno, Giulio Cesare o i complementi di luogo, Costantino o le figure retoriche di suono.
Mi chiedo cosa capiscano e in che modo le mie lezioni s’intersechino con le loro giovani vite.
J ha in mente il campionato di rugby, M i suoi allenamenti di calcio, la mamma di L è malata e T, dopo la scuola, ha sulle spalle tre fratelli minori perché i suoi lavorano tutto il giorno.
Spiego un capitolo dei Promessi sposi, leggo una poesia.
G è angosciata dal suo futuro, i genitori la ipercontrollano, ostacolando la sua vita sociale. Anche N mi dice che suo padre è come il principe-padre della monaca di Monza.
I Longobardi…
Li interrogo.
M ha i lucciconi perché ha litigato con la professoressa di Informatica e si sente ferito. P mi dice che non ha studiato perché aveva dimenticato i libri a casa del padre. A mi racconta ogni cosa con dovizia di dettagli e, quando le dico che va bene, che può bastare, mi risponde che ha lavorato tanto e che vuole raccontarmi tutto… mi rassegno e le do la soddisfazione di parlare.
G mi sfida e non risponde a nessuna domanda.
Infine, li mando a posto sconfortata.
Mi chiedo quale sia il mio ruolo di fronte a questi ragazzini che la società mi affida.
Per i miei professori era chiaro: il loro compito era insegnarci i fondamenti delle discipline, per far di noi dei cittadini e dei professionisti affidabili. Nessuno, né loro né noi, metteva in discussione l’utilità di quanto era previsto dai programmi, fosse pure il greco antico.
A scuola, dunque, al centro c’era l’apprendimento.
Anche per noi era chiaro perché andassimo a scuola: per avere un futuro migliore di quello dei nostri nonni e dei nostri genitori. Venivamo quasi tutti da famiglie semplici, se non umili, eravamo i nipoti dell’Italia povera che precedette il boom economico: l’istruzione, negli anni ‘80, era ancora strumento di promozione sociale; i buoni risultati erano motivo di orgoglio, per noi stessi, per i nostri familiari e anche per i nostri compagni. Quest’ultimo punto è importante: i compagni potevano gioire dei successi scolastici di chi era più bravo di loro, perchè la società offriva comunque una collocazione per tutti e chi non era portato per lo studio poteva affermarsi imparando un mestiere non intellettuale e poteva scegliere come impararlo. In altre parole, chi non amava studiare non era costretto troppo a lungo dentro il sistema-Scuola. Sia chiaro, questo non significa che dobbiamo tornare a sfruttare il lavoro minorile o a esporre i giovanissimi a compiti pericolosi. Sarebbe, tuttavia, opportuno ripensare al nostro sistema formativo, che continua a privilegiare l’intelligenza logico-razionale.
Anche per noi, dunque, a scuola era centrale l’apprendimento. Ai nostri professori chiedevamo solo competenza.
Oggi dalla Scuola ci si aspetta molte cose: deve educare, preparare al lavoro, orientare al lavoro. I contenuti e le discipline sono incidentali, al centro c’è il ragazzo.
È qui che si pone il problema: semplicemente, i professori non sono formati per questo, la Scuola non è attrezzata per questo.
Cosa vuol dire oggi educare? Essere persone educate? Per le generazioni che ci hanno preceduto, la risposta era una, con poche variabili. Oggi non è più così. Oggi qualcuno di noi tollera che i nostri studenti bevano o mangino durante le spiegazioni o che chiedano di andare in bagno più di una volta in un’ora. Altri accettano talvolta qualcuna di queste cose. Altri ancora nessuna.
Un altro esempio: la Scuola si occupa di educare alla salute, compresa la sessualità. (I miei professori ne sarebbero inorriditi! Ancora negli anni ‘80, il sesso era un argomento tabù tra i banchi, tanto che venivano censurate alcune belle pagine della letteratura perché ritenute indecenti.) Il problema che si pone è però un altro: quale sessualità? Quella che promuove il Family day o quella delle famiglie arcobaleno? La società (compresi i docenti stessi) ha punti di vista molto diversi sul tema. Negli anni, ho sentito taluni professori esprimere giudizi pesantissimi sulla sessualità dei ragazzi, opinioni poco rispettose delle loro specificità individuali, talvolta apertamente omofobe. Se è vero che la scuola è uno dei primi luoghi in cui i giovani si interfacciano con il mondo, non è tuttavia necessario che siano i docenti a doversi occupare di qualunque aspetto della loro crescita, soprattutto negli ambiti in cui non hanno competenze specifiche e in cui possono aggravare situazioni emotive già faticose.
Più in generale, perché chi ha studiato Letteratura o Matematica o si è laureato in Economia e commercio dovrebbe sapere o anche solo avere le stesse idee su quali modelli sia più opportuno proporre ai ragazzi in materia di educazione?
A me pare che si chieda ai professori di sconfinare in un territorio che, fatte salve alcune norme fondamentali, dovrebbe essere governato altrimenti: psicologi o infermieri potrebbero, per esempio, rivestire un importante compito di supporto non solo per i ragazzi, ma anche per le loro famiglie, nell’ambito dell’educazione alla salute.
E ancora: quale dev’essere il legame tra la Scuola e il lavoro? In che modo i docenti tra noi che sono passati dallo stare sui banchi allo stare in cattedra, spesso senza soluzione di continuità, possono preparare al lavoro? E a quale lavoro? C’è differenza tra insegnare i fondamenti delle discipline e insegnare a lavorare. Oggi, tuttavia, i percorsi si confondono. Ovviamente, il mio ragionamento è generale: al netto però degli opportuni distinguo tra i vari corsi, investe quasi tutta la scuola secondaria.
Di nuovo, la Scuola sconfina dal proprio territorio naturale: creare cultura.
Come deve sentirsi un ragazzo dentro a questo sistema? Cosa si aspetta dai suoi docenti? È ovvio che, nella discrepanza tra le attese rispetto alla Scuola e la realtà dei fatti, possa risultare disorientato.
Del resto, anche i professori rimangono spesso disorientati. Sono chiamati a prevenire la dispersione scolastica con risorse decrescenti e compiti sempre più vasti. A rendere la Scuola inclusiva valorizzando tuttavia le eccellenze in classi che sfiorano talvolta i 30 alunni. A improvvisarsi psicologi per gestire le sempre più frequenti crisi di panico, a interagire con la Neuropsichiatria per supportare gli studenti con bisogni speciali. Se lavorano con il cuore, si trovano involontariamente a supplire a una genitorialità sempre più fragile e inconsapevole del proprio ruolo di guida.
Quel che è peggio, in queste condizioni, sono chiamati a valutare.
Come si può valutare scolasticamente un ragazzo di cui si conoscono debolezze personali e difficoltà legate alle situazioni che vive? Si rischia di giudicare la sua persona e non il suo rendimento, anche a discapito dei compagni, che magari hanno oggettivamente una preparazione più alta ma sono soggettivamente meno fragili. Questo non significa che la persona non debba essere presa in considerazione, ma solo che il compito di un insegnante è difficile: bilanciare empatia, apprendimento, uguaglianza, valorizzazione personale è complesso.
Confesso la mia preferenza per le prove con esiti oggettivi, computabili matematicamente, per le medie matematiche: mi sollevano dalla difficoltà ad attribuire un voto, se negativo, a ragazzini con situazioni terribili, nelle cui vite la Scuola fatica a trovare collocazione, ma che senza la Scuola sono però ancora più soli, sperduti.
Mi spiego meglio: aiutare i ragazzi, per me, non significa promuoverli a tutti i costi, ma consentire loro, attivando diverse strategie, di raggiungere gli obiettivi scolastici programmati. Questo dovrebbe essere il compito specifico dei docenti e della Scuola: investire, con percorsi di vario tipo, eventualmente in sinergia con altre istituzioni del territorio, affinché l’istruzione torni a essere uno strumento di promozione sociale. “Regalare voti” è una facile risposta al disagio che le nostre classi ci sbattono in faccia, una tentazione che facilita il presente, ma che rischia di rovinare il futuro dei nostri studenti. Ci sono modi più efficaci, benché più impegnativi, per valorizzare gli alunni, nel rispetto dei tempi di apprendimento di ciascuno.
Un esempio. A inizio carriera, ho lavorato per alcuni anni, nella secondaria di primo grado, in un territorio difficile, storicamente terra di emigrazione, prima dal Sud Italia e poi dal Sud del Mondo: avevo a che fare con famiglie numerose, spesso indigenti, culturalmente sprovvedute, talvolta implicate con la microcriminalità locale. La Scuola per loro era la via dell’emancipazione, la speranza. Eravamo per lo più docenti giovani e combattivi, con una Dirigente illuminata. Noi investivamo il nostro tempo e le nostre energie, la Preside tutto il denaro e le risorse che lo Stato poteva metterle a disposizione. Avevamo molte compresenze: mentre qualcuno si occupava di alfabetizzare rapidamente i neoarrivati o di aiutare i più fragili a trovare un metodo di studio, qualcun altro implementava la didattica utile per mandare in scuole superiori impegnative gli studenti che ne avessero le capacità. Tenevamo i ragazzi lontano dalla strada, attivando al pomeriggio le proposte più varie, Cineforum, laboratori teatrali o di ceramica, attività sportive… La nostra Dirigente promuoveva sinergie, interagiva con i rappresentanti delle comunità locali per risolvere alcuni problemi urgenti: per qualcuna di tali comunità, la frequenza scolastica delle bambine e delle ragazzine non era fondamentale, per esempio.
Insomma, quella scuola si dava da fare, attraverso le specifiche competenze dei docenti, per rimuovere quelle condizioni che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (articolo 3 della nostra Costituzione).
Ecco, questo intendo per “aiutare i ragazzi”. La controindicazione è però che servono grandi risorse, umane e finanziarie.
È giugno. Mi sono molto legata ai miei studenti, che ho seguito in prima e in seconda superiore. E loro si sono legati a me: mi cercano all’intervallo, si confidano, vogliono un confronto. Non tutti sono bravi e non sarà possibile, poiché non sarebbe giusto, promuoverli tutti. Quello che vorrei sarebbe saper indicare loro una via da seguire, nel momento in cui venissero bocciati: un percorso formativo più adatto o un supporto per le loro difficoltà, ma non ne sono capace, poiché il Sistema non lo prevede e la mia buona volontà non basta.
Qualcuno di loro sarà disperso.
Ed è sul numero dei dispersi che misuriamo il fallimento del Sistema.