Nel corpo, il tempo: abitare la tecnica senza perderci
- Anna Lorenzini
- 3 giorni fa
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Il corpo è da sempre crocevia di significati, domande, tensioni. Oggetto delle mie ricerche tra fenomenologia e scienze motorie, tento una riflessione ulteriore insieme a voi.
“Siamo il nostro corpo o lo abitiamo come un contenitore?” La filosofia ha cercato risposte fin dall’antichità, oscillando tra il dualismo di Platone, per cui il corpo è prigione dell’anima, e la visione di Spinoza, che riconosce nell’unità inscindibile di pensiero e estensione la radice dell’umano. Ma è con l’irruzione della tecnica moderna che il corpo subisce una trasformazione radicale: non più soltanto oggetto di cura o contemplazione, ma luogo d’intervento, manipolazione, progettazione. La domanda che si impone è cruciale: siamo ancora “naturali”? E, se lo siamo, che cosa intendiamo oggi per “natura”?

La tecnica, che un tempo prolungava le funzioni corporee restando esterna all’organismo, oggi si è fatta intima. Protesi intelligenti, chirurgia estetica, ingegneria genetica, neurotecnologie: non ci limitiamo più a usare strumenti, ma li incorporiamo, li lasciamo agire sul corpo fino a ridefinirne i confini. Il corpo diventa un progetto, un investimento, una superficie da ottimizzare. L’identità stessa rischia di essere subordinata alla performance. In questo scenario, la domanda che Heidegger pone in “La questione della tecnica” risuona con forza: il vero pericolo non è tanto nella tecnica in sé, quanto nel fatto che essa impone un modo di pensare, una visione del mondo dove tutto, anche l’umano, diventa risorsa da disporre.
La nostra epoca tende a rimuovere il limite, il dolore, la vulnerabilità: tutti tratti che il corpo incarna. La tecnica promette il superamento della fragilità, ma così facendo rischia di cancellare proprio ciò che ci rende umani. Simone Weil, in una delle sue pagine più luminose, scrive che “il corpo è il luogo in cui si fa esperienza del limite, e quindi del bisogno dell’altro”. È nel corpo che si iscrive la sofferenza, la malattia, la vecchiaia: realtà che la tecnica vorrebbe occultare, ma che ci rendono capaci di compassione, riconoscimento, relazione. Senza la consapevolezza della nostra finitezza, ci illudiamo di essere autosufficienti, padroni assoluti di noi stessi, ma perdiamo la capacità di incontrare l’altro come essere vulnerabile come noi.
Naturalmente non si tratta di demonizzare la tecnica. Essa può essere strumento di emancipazione, sollievo, cura. Il problema sorge quando la tecnica cessa di essere mezzo e diventa fine, criterio di valore, misura dell’umano. Il corpo, ridotto a oggetto da perfezionare, rischia di perdere il suo spessore simbolico, esistenziale, narrativo. Perché non è solo ciò che ci fa muovere nel mondo, ma ciò attraverso cui viviamo il tempo, l’amore, il desiderio, la memoria. Henri Bergson ci ricorda che la nostra esperienza non è fatta di istanti giustapposti, ma di durata: è nella profondità del vissuto corporeo che si dà il senso.

In un’epoca che cerca di liberarsi dal corpo per diventare pura efficienza, la filosofia ha il compito di riportare attenzione alla sua opacità, alla sua resistenza, alla sua bellezza imperfetta. Forse la domanda da porsi non è se siamo ancora naturali, ma se siamo ancora capaci di abitare il corpo senza volerlo superare. Accettare il corpo non significa subire passivamente il suo limite, ma riconoscere che è proprio da lì che può nascere un’altra idea di libertà: non come illusione di onnipotenza, ma come capacità di stare nel tempo, nella relazione, nella cura di sé e dell’altro. In questo, più che in ogni perfezionamento tecnico, risiede ancora oggi l’essenza dell’umano.