top of page

Meravigliosa seconda generazione

Raisa e Anna (nomi di fantasia) sono nate qui, tutte e due. Le ho conosciute a scuola. Parlano perfettamente la nostra lingua, sono studentesse impegnate. Una ha origini albanesi, l’altra senegalese, a dispetto del nome, scelto dal papà per riconoscenza a una signora italiana (per lei, la sua “nonna”) che lo aveva aiutato, appena arrivato in Lombardia. Entrambe sono di fede islamica, nessuna si vela.

Irish Defence Forces, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Mădălina, invece, è una meravigliosa giovane donna di origini rumene. È arrivata qui a nove anni. È istruita e capace, sempre costruttiva.

 

Le loro storie familiari si assomigliano molto. Prima sono arrivati i papà.

 

Mio papà - racconta Raisa - è scappato da una vita passata in povertà in Albania principalmente per trovare una stabilità economica così da poter aiutare la sua famiglia e crearne una migliore per se stesso. Mi parlano di inizi difficili, di occupazioni instabili, di vite talvolta esposte alle truffe di chi si approfittava della loro debolezza di stranieri. Poi è andata meglio e sono arrivate le famiglie.

 

Raisa e Anna evidenziano un’infanzia meno agiata dei loro compagni italiani.

 

Tutte e tre ricordano con orrore le lunghe ore passate in questura, con tutta la famiglia, per ottenere i permessi di soggiorno. Ora Raisa è cittadina italiana e le cose sono migliorate anche per Mădălina da quando, nel 2007, la Romania è entrata nell’UE. Anna, che, unica della sua famiglia a essere nata in Italia, non ha però la cittadinanza, mi spiega che avere il permesso di soggiorno fa sentire gli immigrati deboli, perché bisogna svegliarsi presto la mattina per andare a fare la fila in questura, dove non sempre le persone sono cortesi: vorrebbe avere la cittadinanza per porre fine a questa tortura.

© Ufficio Stampa - Creative Commons CC0 1.0 Universal - Public Domain Dedication (CC0 1.0)

Anche i viaggi fuori dal Paese diventano meno complessi se si è cittadini italiani o europei.

 

Anna soffre molto la sua condizione. La mia vita da figlia di immigrati è molto difficile, sia dal punto di vista culturale che da quello mentale. Sono in mezzo a due culture completamente diverse, senza sapere quale seguire: ciò che è accettato in questa società non è accettato nell’altra, è come se andassi alla cieca. Anche dal punto di vista linguistico, spesso, faccio errori in entrambe le mie lingue. A volte mi chiedono se penso in senegalese o in italiano: non lo so neanch’io, dipende dall’argomento. La cosa più difficile da capire è perché sono diversa dei miei compagni italiani, siamo tutti nati in Italia e ho meno diritti di tutti loro.

 

Anche il colore della pelle per lei è un problema, sottolinea come agli occhi di molti sia screditante.

 

Mădălina mi racconta un aneddoto che rende bene l’idea dello sdoppiamento di identità che caratterizza i figli dei migranti. Ho iniziato a percepire la differenza culturale nel momento in cui, arrivata in Italia, hanno cominciato a chiamarmi con il mio secondo nome, Maria, perché più facile da pronunciare. Da quando sono nata, mi hanno sempre chiamata Mădălina, ed è sempre stato il nome con cui mi presentavo. E’ stato un po’ come vivere due vite, fuori casa ero Maria e a casa ero Mădălina.

Nelle parole di tutte c’è della frustrazione.

 

Mădălina è più positiva, ha alle spalle una famiglia molto presente, affettuosa. La sua mamma in Romania era insegnante, preparata dal punto di vista pedagogico, anche questo è stato importante nella sua crescita. Evidenzia però che, quando andava a scuola, qualsiasi comportamento diverso era sempre associato al fatto che non fosse italiana, la motivazione non era mai, per esempio, “I genitori hanno un altro metodo educativo” o, se lo era, comunque si aggiungeva un pezzo “I genitori hanno un altro metodo educativo perché non sono italiani”.

 

Anche Raisa si sente addosso il marchio di straniera: in un modo o nell’altro - dice - le persone mi fanno sentire inferiore. Nonostante sia cittadina italiana a tutti gli effetti, in Italia non sarò mai riconosciuta come tale.

 

Entrambe evidenziano la mancanza di curiosità degli italiani rispetto alla loro cultura, una certa supponenza, mista a chiusura. Mădălina descrive così l’atteggiamento di compagni di scuola, professori e conoscenti quando cercava di raccontare qualcosa di sé: È sempre dato per scontato che la cultura italiana sia giusta, quindi ascolto quello che mi viene raccontato dell’altra cultura, ma tenendo presente che la mia è quella giusta.

 

Anna è più cupa, si sente sotto pressione: Da noi stranieri - sottolinea - ci si aspetta che diamo il massimo per cambiare la nostra situazione economica e tirarci fuori dalle case popolari, mentre i miei compagni italiani hanno la strada già spianata. Mi parla del fatto che, a differenza della maggior parte dei suoi amici, deve lavorare in casa, cucinare, pulire, fare il bucato, e stare attenta a quello che spende; è però riconoscente alla mamma e al fratello, che cercano di farla vivere come sognerebbe ogni sedicenne.

 

Ritornano nella terra d’origine delle loro famiglie volentieri.

 

Per Anna è più difficile, perché i voli per il Senegal sono molto costosi: Adoro andarci - racconta - mi sento a casa lì, senza che nessuno mi giudichi con lo sguardo e mi dica di tornare a casa mia.  L’Albania è il mio posto felice - dice Raisa - quello in cui mi sento più a casa, purtroppo però è solo una sensazione temporanea, che fa sempre male al cuore nel momento in cui le vacanze finiscono e devo tornare alla vita di tutti i giorni in Italia, è un’illusione. Del resto - aggiunge - l’Italia offre buone cure mediche, cibo migliore, luce ed elettricità tutti i giorni.

Insomma, il loro non è il mondo delle baby-gang, dei maranza, delle periferie degradate, della microcriminalità su cui troppo spesso i media appiattiscono la condizione degli immigrati di seconda generazione.

 

Sono giovani che cercano, con impegno e serietà e fatica, di farsi spazio in una società complessa, portandosi addosso il fardello del pregiudizio etnico.

 

Concludo con un’osservazione di Mădălina: chiudersi rende solo più difficile la quotidianità dello straniero, come quella dell’ospitante; accogliere la diversità è una sfida, che può essere vissuta in modo positivo, da entrambe le parti, per far funzionare più serenamente le cose, nel concreto delle faccende di tutti i giorni.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

Unisciti ai canali

  • Instagram
  • Facebook
  • Whatsapp
bottom of page