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Lavorare da morire, Italia 2024

“Ogni estate sono migliaia. Impossibile censirli tutti, perché nella stragrande maggioranza dei casi sono letteralmente occultati dai caporali, quasi sempre della loro stessa nazionalità. Impossibile censirli tutti, perché le statistiche sui flussi migratori fanno fatica ad afferrare la loro condizione essenziale, di stagionali «puri», propria di chi va e viene a seconda delle stagioni seguendo, nel pieno dispiegarsi della globalizzazione dei mercati, la logica ferrea del mercato della forza lavoro.”

È con lucida drammaticità che, meno di dieci anni fa, il non sufficientemente compianto giornalista tarantino, Alessandro Leogrande, ci accompagnava con il suo Uomini e caporali, in un viaggio nella desolante campagna pugliese, arsa dal sole e intrisa di sangue e violenza dei “nuovi schiavi nelle campagne del Sud”.

Il tema, certo non nuovo in Italia, al punto tale che ci fu chi, sulla lotta al caporalato ci costruì una carriera politica e tentò – rivestendo il ruolo di ministra dell’Agricoltura – di contrastare il fenomeno legiferando in materia. Il riferimento è all’ex ministra, pugliese anche lei, Teresa Bellanova, già ministra dell’agricoltura nel governo Conte II (2019-2021).

 

Dopo aver riacquistato una certa notorietà, il tema della lotta al caporalato, in un paese dalla memoria di un pesce rosso come l’Italia, è fatalisticamente ripiombato nel dimenticatoio. Appaiono temi molto più caldi, per gli attuali ministri dell’agricoltura e del "made in Italy”, la lotta contro le farine di insetti e la carne 3d; tuttavia, le piaghe dello sfruttamento e del lavoro nero in agricoltura, pur uscite fuori dai radar del marketing politico, non possono considerarsi appannaggio del passato. Ma tant’è, in una società civile con scarsa memoria, sono i fatti di cronaca, trending topic che han riportato il caporalato all’attualità.

 

Stando ai fatti: in una giornata di metà giugno come altre, il bracciante indiano Satnam Singh, impiegato nelle campagne di Cisterna di Latina, viene coinvolto in un gravissimo incidente sul lavoro. L’incidente non lo uccide, l’immigrato irregolare che ha appena perso un braccio, ce lo immaginiamo, inorridendo, straziante e immerso in un bagno di sangue, che viene raccolto dal furgoncino aziendale, letteralmente scaricato morente, non di fronte a un ospedale, bensì di fronte “casa” (e con casa si intende un tetto in lamiera di cinque metri quadri, posta nel giardino di un villino di periferia di una coppia di italiani).


 

In questa horror story di provincial succede che il lavoratore in nero morirà il giorno dopo, l’autopsia rivelerà che da quelle ferite, pur orrende, la persona, se curate in tempo, si sarebbe potuta salvare. La moglie Soni, dopo aver perso suo marito perde anche la sua baracca visto che gli italianissimi proprietari della sudicia baracca in lamiera decidono di cacciarla via “per evitare fastidi”[1]. A denunciare l’accaduto non vi è Nessun Italiano, ma è un collega del lavoratore defunto che, certo del rischio di espulsione, in quanto anche lui immigrato irregolare, decide di denunciare i fatti poiché questo orrore andava a calpestare la dignità umana e denunciarlo era un gesto più importante del rischio di espatrio.

 

Francesco Lollobrigida - Ministero delle Politiche Agricole, CC BY 3.0 IT, via Wikimedia Commons

Questi i fatti raggelanti. Le reazioni a caldo sono state tra l’indignato e il surreale, con la ministra del lavoro Calderone che dichiarava guerra al caporalato, e il ministro-cognato Lollobrigida, che si affrettava a chiedere di “non criminalizzare gli imprenditori agricoli”. Si distingue, in una specie di lotta al baratro più basso del peggio, la dichiarazione del padre dell’imprenditore agricolo che ha ucciso (!) con la sua omissione di soccorso il lavoratore, dichiarando che si è trattato di “leggerezze del bracciante”.

 

I giorni passano e in un Paese che si indigna velocemente e che altrettanto rapidamente dimentica, è talmente fuori scala la banalità del male di questa vicenda, che addirittura la patriota presidente del Consiglio, a capo di una coalizione che fa del disprezzo verso i immigrati il proprio perno politico, spinta dall’algoritmo dell’indignazione, e a corto di contro-argomentazioni, in un discorso, in cui il tema politico era come attaccare l’Europa, decide di dedicare una bonus track a questo incidente sul lavoro. Resterà probabilmente memorabile il suo “rega, arzateve pure voi[2], probabilmente uno dei momenti più cringe della politica italiana degli ultimi decenni, in cui Giorgia deve riprendere, in favore di telecamere, al Salvini non applaudente e visibilmente irritato, invitandolo a partecipare – per non fare brutta figura verrebbe da pensare – al momento di cordoglio.


La tragedia del bracciante straniero irregolare morto di sfruttamento del lavoro in Italia nel 2024 non è un caso isolato. La Fondazione Rizzotto che si occupa da diversi anni di monitorare il fenomeno, e che produce annualmente un dossier a esso dedicato, stima tra 180 e circa 530mila le vittime di caporalato negli ultimi anni. Sebbene le ispezioni stiano aumentando e le cifre di tale piaga, diminuendo, nel 2022 un preoccupante 56% dei controlli sui lavoratori in agricoltura ha rilevato irregolarità.

 

Ciò dimostra come, lo sfruttamento e l’irregolarità nel settore primario non siano fenomeni episodici bensì strutturali al modello economico dell’agricoltura italiana.

 

Gli stranieri, inoltre, pur costituendo il 10,3% del totale degli occupati in Italia nel 2022 (dati del Ministero del Lavoro), secondo i dati Inail costituiscono il 20,3% delle vittime degli infortuni sul lavoro nel 2022, e hanno di conseguenza il doppio di incidenza di infortunio della popolazione italiana.

 

Se in generale in Italia un lavoratore su dieci è immigrate, tale cifra aumenta vertiginosamente in agricoltura: un terzo delle ore lavorate in agricoltura nel 2023 sono state effettuate da stranieri. Tuttavia, questo riguarda la componente “ufficiale” del lavoro in agricoltura, visto che stime Eurispes parlano di un 25% del lavoro nero o irregolare nel settore agricolo.

 

Tra lavoro ufficiale e in nero, appare evidente che senza lavoratori stranieri, il “made in Italy” nell’agro-alimentare, di cui l’opinione pubblica si riempie spesso la bocca, non esisterebbe affatto.

 

Appare evidente che per difendere l’agricoltura italiana non si potrebbe non prescindere dal difendere le tutele dei diritti dei lavoratori precari e sfruttati, o, quando va bene, sottopagati. Ci si aspetterebbe un pugno più duro contro lo sfruttamento che coinvolge sia italiani che stranieri, ma che colpisce maggiormente gli stranieri, visto che in Italia risiedono oltre 500mila stranieri irregolari, funzionali a essere impiegati in attività lavorative pesanti, occasionali e prive di tutele, come l’agricoltura.

 

In una calda estate appena iniziata la cronaca rammenda al consumatore quanto sia ancora attuale lo sfruttamento nel settore economico che è censito dare nutrimento alle persone. Eppure, concordiamo pienamente col ministro: non si può colpevolizzare tutti gli agricoltori, schiacciati tra costi di produzione crescenti, margini di profitti erosi dagli speculatori e dalla grande distribuzione. Solo una quota marginale dei profitti dell’agricoltura va nelle tasche dei produttori, ponendo a serio rischio la sopravvivenza dell’intero sistema agroalimentare.

Michaelgoima, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Etica dignità e diritti dovrebbero essere elementi non negoziabili né conflittuali in agricoltura. Questa vicenda di cronaca ha portato l’intero paese a vergognarsi. Che la si usi per ripensare, almeno in parte, a un modello di business che sta in piedi non grazie all’ottimizzazione dei costi e alla giusta redistribuzione, ma grazie alla compressione di salari e diritti.

 

Che l’agricoltura resti uno dei pochi elementi pienamente identitari e accomunanti, da nord a sud, dell’italianità del rispetto delle tradizioni con uno sguardo verso il futuro. Che l’orgoglio italiano, leitmotiv dell’ultima esposizione universale di Milano del 2015, con il suo slogan “nutrire il pianeta” non resti una scatola vuota. Tuttavia, non si può essere orgogliosi di fronte alla disumanizzazione del lavoratore, quale elemento “usa e getta” (macabramente in senso stretto del termine) della catena di produzione agricola.

 

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