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Ius scholae, integrazione e cittadinanza da una prospettiva conservatrice

Sarebbe buono e opportuno dar seguito in maniera concreta al recente dibattito sullo ius scholae. Sarebbe, sì: perché, quando si parla di cittadinanza, ci sono alcune premesse da fare, sia di metodo che di merito, soprattutto se si ha davvero a cuore la questione. 

Antonio Tajani Silvio Berlusconi Ius Scholae
European People's Party, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Serve ribadirlo: non si sta affrontando un dossier tra gli altri, ma un tema che riguarda strettamente la vita – quella vera – di tanti esseri umani, di persone che hanno affrontato (nella maggior parte dei casi) difficoltà su difficoltà, soprattutto sul versante economico-sociale. Ma è un dossier che riguarda anche la configurazione futura e la tenuta di un Paese, di un’intera comunità nazionale. Un tema non da poco.

 

Per questo motivo, affrontare una questione di capitale importanza con la postura sciatta di chi è interessato soltanto alla tattica politica per marcare il proprio peso all’interno del perimetro che sostiene il governo non aiuta affatto. Anzi, serve a mortificare la questione e ridurla a chiacchiericcio estivo figlio dell’entusiasmo per i risultati raggiunti dall’intero movimento olimpico azzurro nel contest di Parigi 2024. In Italia c’è il vizio di buttarla in caciara su tutto, soprattutto quando c’è da affrontare questioni delicate (dal fine vita ai diritti civili ai temi che afferiscono la memoria storica della Repubblica). E questo è uno di quei casi.

 

Quando servirebbe, invece, una seria e ponderata iniziativa parlamentare, quanto più ampia possibile e rispettosa di tutti i passaggi. E non dell’Esecutivo. Ecco la questione del metodo. Il parlamento deve servire a questo, a sfornare leggi che abbiano un’ampia durata temporale e una consistenza valoriale alta. 

 

I problemi e le sofferenze di quanti hanno vissuto e studiato in Italia, dando soddisfazione ai sacrifici e alle speranze dei propri genitori, vanno riconosciuti e accolti.  Sono tante le storie in tal senso e meritano tutte rispetto.

 

E sembra una vera ingiustizia escludere dalla cittadinanza chi ha magari affrontato con merito tutte le scuole dell’obbligo e l’Università. Il ciclo completo, sì. Qui si entra nel merito (senza esserne però competenti). Perché se la scuola dell’obbligo è – scusando il bisticcio di parole –obbligatoria e va garantita a chiunque, indipendentemente dalla nazionalità di provenienza, è l’Università a fare la differenza, in quanto luogo di formazione che proietta lo studente nel mondo del lavoro e quindi, da attore, nel contesto sociale di riferimento. La laurea può fare la differenza nel calcolo della cittadinanza? Se si è in cerca un criterio che possa ancorarsi all’istruzione, non altri, certamente. 

© European Union, 2024, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons

Spesso si dimentica che la cittadinanza non è obbligatoria per vedersi riconoscere i diritti spettanti a qualsiasi essere umano. Non strettamente, almeno. Se ne può fare a meno, ma fino a un certo punto. E lì entra in gioco un’altra variabile, decisiva: l’appartenenza a una comunità, il decidersi per essa e pretendere da essa determinati obblighi. Diritti e doveri. Un pattern che resta qualcosa di vago fino a quando la storia non richiede anche dell’altro. 

 

Chi vi scrive vuole portare all’attenzione dei lettori la testimonianza di un italiano (per certi aspetti un vero patriota) che per necessità vive da anni in Finlandia. Bene, lui ha chiesto la cittadinanza finlandese all’indomani dell’ingresso delle truppe russe in Ucraina. In Italia, magari, non lo percepiamo adeguatamente, ma da quelle parti ciò ha portato profonda preoccupazione e il riaffiorare di ricordi inquietanti connessi al lungo Novecento. Ecco, davanti al pericolo, lui ha elaborato una scelta: ha optato per la Finlandia nella consapevolezza di dover essere chiamato, prima o poi, a difendere un luogo che ha amato davvero. Anzi, è stato incoraggiato da questo pensiero. 

 

Anni fa avremmo derubricato tale racconto tra i casi limite connessi alla cittadinanza, quando si credeva che pace e benessere, in Occidente, sarebbero stati irrevocabili.

 

Ultimamente, però, abbiamo scoperto quanto le cose non stiano affatto così e che l’ipotesi dello scoppio di una guerra su vasta scala sia tutt’altro che irrazionale e lontana. Insomma, cittadinanza significa – è tragico porla così – anche poter morire per una nazione, anche se non si vuole, senza essere dei nazionalisti o degli sciovinisti.

 

Chi ha lanciato la pietra del dibattito l’ha tenuto in considerazione? È importante che la destra non sia sorda a tutto ciò e che sappia cominciare a masticare senza ritrosie il tema dell’integrazione (anche da una prospettiva conservatrice). 

 

È altrettanto importante, però, che certa sinistra o certi liberali non considerino l’immigrato alla stregua di un ente astratto o un di soggetto apolide, il soggetto avanguardista di una nuova umanità priva di fedi o appartenenza, una tabula rasa. Non è così. La storia ci dice e dirà sempre dell’altro. Ricordandoci che l’essere umano, da sempre, cerca sì sicurezza e pace, ma anche risposte sulla vita e sulla morte. E quelle non arrivano da un atto burocratico, ma da una scommessa.

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