Quanto putiferio può creare una “pubblicità progresso”? Sono partita da questa domanda, ma non sono convinta che il complesso polirematico utilizzato per definire lo spot della discordia sia adeguato.
C’era una volta un’innocua pesca, riposta tra tante sue pari in un grande spazio adibito all’acquisto di beni di prima necessità e non solo.
Una bimba dal volto molto espressivo, dotata di sensibilità d’altri tempi, si sottrae allo sguardo materno e viene ritrovata mentre sceglie con cura la protagonista involontaria dello spot Esselunga, facendola acquistare alla sua mamma. Poi, dulcis in fundo, la dona a suo padre spacciandola come piccolo presente riconciliante, di cui lei si fa umile portatrice, indicando l’ignara madre quale mandante del succulento, dolce dono. Il padre si dice sorpreso e accoglie con un sorriso rassicurante la pesca, sostenendo che sarà sua premura ringraziare la mamma. Il corto si conclude con il claim (geniale a mio avviso, anche slegato dalla storia che l’ha generato!): «non c’è una spesa che non sia importante».
Non è il caso di scomodare la Sehnsucht, ma il “fenomeno pesca” merita una riflessione, fosse solo per aver quasi monopolizzato i principali social network da giorni, dando vita ad avvincenti, quanto ilari reinterpretazioni, meme e ironie polemiche, (non ultima quella di Pieraccioni): dunque, a occhio e croce, anche i non addetti ai lavori possono mettersi l’anima in pace e accettare che, per le regole base della comunicazione, il messaggio sia arrivato forte e chiaro a destinazione, ricevendo un’eco significativa, tale da definire lo spot, in effetti, un successo.
Un passo indietro, però, vorrei farlo e mi sono un po’ documentata sul backstage: chi ha realizzato lo spot? Quanto lavoro è stato fatto? Davvero contiene una dose di anti-LGBT+? Andiamo con ordine, troppi input non aiutano mai la comprensione che ha bisogno di gradualità, altrimenti si rischia di fare una macedonia.
Valutarne il pregio tecnico, seguendo parametri di marketing e comunicazione, frutto di studio e di competenze settoriali, purtroppo non mi è possibile, non essendo provvista dei necessari strumenti d’indagine. Però, spostando il piano d’analisi, e guardando ad alcuni dati reperibili anche su altre note testate, le ricerche condotte dal regista francese, Rudi Rosenberg, e le energie spese per la produzione dello spot sono state molto importanti. Egli si è avvalso di un team di professionisti della comunicazione: l’agenzia SMALL di New York, nata nel 2014 dai Golden Boys della pubblicità, due italiani, Luca Lorenzini e Luca Pannese.
Sospendere il giudizio, alla Cartesio e non solo, provando a recuperare la storia che precede il racconto per immagini permette di costruirsi un’idea più ricca di dettagli. Inversamente proporzionale alla brevità dello spazio che la pubblicità occupa, si può immaginare una vastità di interconnessioni tra professionisti di più settori. Certo, lo spot è tutto fuorché politically correct, per quanto magari, in buona fede, aspiri a esserlo. Eppure, il rovescio della medaglia è che potrebbe non volerlo essere. Dubbi insoluti permangono, in particolare sulla mancanza di leggerezza. Perché sì, per quanto ben costruita, questa pubblicità in parte fa tristezza, lascia comunque lo spettatore un po’ contrito e mesto. Il rischio della strumentalizzazione che è parte di un sottilissimo gioco di specchi, sui quali si arrampicano esperti creativi pagati profumatamente per farlo.
In effetti, la scommessa dei realizzatori è tutta giocata sulle emozioni da suscitare sui potenziali acquirenti della nota catena di discount. Mettere d'accordo estimatori e detrattori è possibile, forse, solo in un tratto, che pure è il più decisivo di tutti: la “divina indifferenza” montaliana è oscurata dall’esigenza degli uni e degli altri di farsi sentire, ultracontemporanei in questo. Esprimersi è l’imperativo morale attuale, invischiati tutti nella dòxa (opinione) - lungi da me sperare di smorzare le tensioni speculative che questo spot ha saputo suscitare. Tanto di cappello!, questo sì, a un’Italia così attenta, pronta a indignarsi, a scontrarsi, a diventare partigiana tra perbenisti e anime fragili, sempre pronta a ruggire dal divano e dietro un device, prediligendo l’azzuffarsi, anziché il confronto civile su questioni che tutti ci riguardano: la spesa e la sfera domestico-familiare. Viene spontaneo spostare il focus sulle sottese, pretenziose, ben miscelate emozioni inserite in un corto che arriva forse a 5 minuti.
Dunque, senza affondare (e affogare) nelle innumerevoli interpretazioni a cui si offre questo mirabile artefatto umano, mi concentrerei sull’arte del comporre e del narrare per immagine, smuovendo il sentire collettivo e individuale, attraverso emozioni, anche contrastanti e non volutamente lesive delle “categorie” di consumatori insorti. Altra parola chiave, naturalmente, quella del referente principale di questo spot: il consumatore, parte di un meccanismo consumistico ben più ampio e complesso. Questo permette di cogliere il macrotesto del messaggio: per quanto mi riguarda, Pesca, Esselunga e il team di creativi che ha elaborato la campagna pubblicitaria, sono stati in grado di mettere in scena un elegantissimo e ben occultato inno al potere d’acquisto (sempre più ridotto e in pericolo, data la situazione socio-economica dell’eurozona) tutto giocato sull’importanza di ogni spesa.
Un velato inno al consumo e al mercato stesso, senz’altro ben rappresentato dalle cifre riportate: dalle 136 mila menzioni e dai 2,5 milioni di interazioni complessive sui canali social più visitati dagli italiani. Questi i numeri riportati dalle prime stime che siglano, un indubbio trionfo della nuova campagna Esselunga, con il beneplacito dell’unico vero pomo della discordia che la Storia ricordi, da che mondo è mondo: la mela. Spodestata e sostituita, resta regina dell’Iliade, del paradiso terreste e della Apple, ovviamente.