Nella sua opera, Il femminile nella fiaba, Marie-Louise von Franz descrive lucidamente i sentieri angusti e coatti nei quali viene ricacciata la personalità femminile. In particolare osserva che nella nostra civiltà ebraico-cristiana, con una tradizione rigidamente patriarcale, «l’immagine della donna non trova rappresentanza adeguata, nemmeno nel culto mariano.» E con un esplicito richiamo a Jung aggiunge: «La donna reale è incerta sulla propria assenza, su ciò che è o che potrebbe essere.»[1].
Ma se documentassimo in senso diacronico e sincronico la dimensione mondiale e trans-culturale del patriarcato, ci renderemmo conto che la subordinazione sociale delle donne è esistente in tutte le società, sebbene con differenze e intensità profondamente diversificate. È ciò che nel mio precedente contributo ho definito: «fenomeno della cenerentolizzazione», che si ripropone come modalità socialmente approvata e condivisa del femminile nel suo rapportarsi al maschile.
Se le religioni dominanti, la tradizione e la mentalità imperante esigono, in tante parti del mondo, che la donna rifugga la sfera del lavoro e si ripieghi sulla cura della casa e della prole, attraverso le figure parentali prima e professorali poi, le bambine vengono educate a conseguire un’autonomia parziale, perché quella totale appartiene al maschio. La donna viene abituata a cercare la propria sicurezza nella dipendenza da una figura maschile, paterna prima e coniugale poi. Questa modalità scongiura il conflitto con la famiglia di provenienza, con la società e con la famiglia di approdo. Il matrimonio acquista così il volto di un luogo che permette di sfuggire le insidie della società, le rivalità professionali e lo stress dell’affermazione. Ne consegue che ogni qualvolta la società si presenta con il suo volto aggressivo, frenetico e frustrante, l’archetipo di una Cenerentola tranquillamente ripiegata sulle rassicuranti faccende domestiche narcotizza ogni tentativo di fuga. Ma quel è la dimensione evolutiva, sociale e psicologica sottesa alla genesi di questo fenomeno?
Se prestiamo ascolto a Freud: «II povero Io» ha vita dura, perché «è costretto a servire tre severissimi padroni, deve sforzarsi di mettere d’accordo le loro esigenze e le loro pretese. Queste sono sempre fra loro discordanti e appaiono spesso del tutto incompatibili; nessuna meraviglia se l’Io fallisce così frequentemente nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo esterno, il Super-io e l’Es»[2].
Come ben illustrano Francesco Dentale e Accursio Gennaro, per Freud parte dell’Io (i processi legati alle difese) e parti del Super-io (senso di colpa) sono inconsci; ecco perché la seconda topica (quella delle istanze: Es, Io e Super-io), subentra alla prima dei sistemi: Inconscio, Preconscio e Conscio[3]. Pertanto «il Super-io affonda nell’Es; quale erede del complesso edipico» e quantunque racchiuda l’ideale dell’Io e la coscienza morale come conseguenza dell’identificazione del bambino con il padre e della bambina con la madre, il Super-io possiede un’origine filogenetica: è cioè frutto di acquisizioni ereditarie biogenetiche, legate alla storia dell’umanità. In questo senso le norme
«che le generazioni si tramandano ereditariamente, e che inizialmente erano frutto degli apprendimenti dell’Io, vengono ora trasmesse biologicamente nell’Es di ogni individuo umano. Il nostro Es porta con sé gli apprendimenti che un tempo furono acquisiti mediante l’interazione fra l’Io e l’ambiente. Sulla base di queste norme interiorizzate filogeneticamente si sviluppa poi il Super-io di ogni individuo in base alle sue singolari esperienze ontogenetiche. In questo senso, mentre le rimozioni originarie sono legate alla ereditarietà delle caratteristiche acquisite, le rimozioni posteriori successive pur basandosi sulle prime sono legate all’ontogenesi individuale»[4].
È su questo terreno che dimensione filogenetica, dimensione sociale e dimensione personale trovano la giusta collocazione acquistando quella legittimazione teorica e quindi quel potere effettuale che oggettivamente possiedono. Si comprende quindi come il Super-io si nutra, a un tempo, del filogenetico (per via ereditaria) dell’ontogenetico (il vissuto edipico), e del sociale (le istanze parentali come veicolo delle istituzioni e della mentalità dominante, sia in senso mimetico che – eventualmente – oppositivo).
Ed è sempre su questo terreno che Freud e Jung s’incontrano. In L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi (1934-38), pur mostrandosi recalcitrante ad assumere la terminologia junghiana, considerandola implicitamente pleonastica, Freud concorda appieno sul suo valore: «il contenuto dell’inconscio è già comunque collettivo, patrimonio universale dell’umanità»[5].
Jung ne parla in Gli archetipi dell’inconscio collettivo (1954), dove distingue «un certo strato per così dire superficiale dell’inconscio», quello senza dubbio personale che «chiamiamo inconscio personale» e uno strato più profondo, su cui il primo poggia, «che non deriva da esperienze e acquisizioni personali, e che è innato.» Si tratta del «cosiddetto inconscio collettivo.» E spiega di aver scelto
«l’espressione collettivo perché questo inconscio non è di natura individuale, ma collettiva e cioè, al contrario della psiche personale, ha contenuti e comportamenti che (cum grano salis) sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui. In altre parole, è identico per tutti gli uomini e costituisce un substrato psichico comune di natura soprapersonale presente in ciascuno»[6].
Grazie alla formulazione junghiana dell’inconscio collettivo, si può ben comprendere la forza e l’immagine archetipica di Cenerentola, tipica del patriarcato. Più esplicitamente, l’archetipo di Cenerentola è uno dei nuclei forti dell’Anima. Nozione che intesa in tutta la sua complessità rappresenta la condensazione dell’immagine ereditaria collettiva della donna[7], nutrita poi dalla figura materna: imago materna che nel suo darsi nel rapporto edipico è già, almeno parzialmente, predeterminata dalle sedimentazioni dell’inconscio collettivo e dall’interazione dell’Ombra delle diverse culture[8].
Con le parole intense – per pathos e penetrazione psicologica – della von Franz: ci sono donne
«che hanno imparato a usare l’Anima dell’uomo adattando ad essa il proprio comportamento. Si tratta di donne che potremmo chiamare donne-Anima: esse riescono a essere coscienti di sé stesse soltanto come specchio dei desideri dell’uomo. L’uomo che le ama potrà dir loro che sono meravigliose, ma allorché costui venga a mancare si sentiranno annientate, poiché sono consapevoli della loro personalità femminile soltanto in virtù della reazione dell’uomo [...] Se la donna sente di piacere all’uomo soltanto perché è un’incarnazione della sua Anima, si sentirà costretta a recitare questa parte. Ma in tal caso, l’uomo l’amerà soltanto come uno dei suoi fantasmi e non come una persona indipendente, e allora il suo non sarà che una parvenza di sentimento.»[9].
Si riproduce così quella sudditanza storica del femminile che impedisce la piena e sana realizzazione dell’uomo e della donna. Elusione di una compiuta realizzazione di sé o del Sé a cui bisogna porre rimedio.
[1] M.-L. von Franz, Il femminile nella fiaba, Boringhieri, Torino, 1983 (orig. 1972), p. 10.
[2] S. Freud, Opere (1886-1938), voll. 12, più un 13° di Complementi (1885-1938), Boringhieri, Torino, 1966-1993 (orig. 1924-1934), citazione dal vol. XI, p. 188.
[3] Ivi., pp. 189-90.
[4] F. Dentale e A. Gennaro, Inconscio, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 304.
[5] S. Freud, Opere, cit., vol. XI, p. 448.
[6] C. G. Jung, La dimensione psichica, Boringhieri, Torino, 1972 (orig. 1930-1958), pp. 120-1.
[7] A. Gennaro, Introduzione alla psicologia della personalità, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 117.
[8] M.-L. von Franz, L’ombra e il male nella fiaba, Bollati Boringhieri, Torino, 1995 (orig. 1974), p. 14.
[9] Ivi, Il femminile nella fiaba, cit., p. 10.