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Il Dilemma del Politically Correct nella Società Contemporanea

Il concetto di “pensiero unico” rappresenta uno dei temi più discussi, oppositivi e controversi di questa società. Tale termine indica la tendenza ad abbracciare una visione, un'opinione o un linguaggio specifico su questioni sociali o culturali, un terreno fertile per dibattiti e propaganda politica. Questo fenomeno viene spesso associato al politically correct e alla cancel culture, entrambi caratterizzati dalla censura o dalla repressione delle opinioni considerate non conformi, offensive o discriminatorie.

In che misura il concetto di pensiero unico può essere associato al politically correct? È appropriato considerare il politically correct come una forma di censura al pari della cancel culture?


La diffusione del politically correct nasce dalla necessità di promuovere l'inclusione e il rispetto delle differenze; tuttavia, si teme che essa possa sfociare nell'omogeneizzazione di pensiero, portando l’interlocutore a domandarsi se il “politicamente corretto” limiti la libertà di espressione e la diversità di prospettive. Per esempio, quando le persone sono preoccupate di offendere o discriminare, possono finire per evitare di esprimersi liberamente, censurando sé stesse per paura delle reazioni negative. Una repressione linguistica che riporta al sentore di una uniformità di pensiero atta a ostacolare il dibattito aperto e la critica costruttiva. In realtà, è giusto osservare come i sostenitori della teoria del “pensiero unico” spesso si trovano a utilizzare le stesse modalità che gli oppositori del politically correct stanno già evidenziando. La visione di un “pensiero unico” a cui attingere è pienamente rappresentata, infatti, da coloro i quali non osservano, poiché privi di strumenti culturali e libero intendimento, la realtà sfaccettata e diversamente unica della vita, all’interno della quale l’essere umano si esprime in tutte le sue peculiarità.


Perché serve il politicamente corretto? Al giorno d’oggi, la comunicazione avviene principalmente attraverso i social media e le piattaforme digitali, luoghi in cui le opinioni possono essere amplificate e diffuse rapidamente, spesso senza un adeguato contesto o una verifica accurata, generando disinformazione e poco, se non nullo, approfondimento. È chiaro che, alla luce di tale contesto, emergano sfide significative per la gestione delle informazioni, una corretta e rispettosa comunicazione e per la promozione di un dibattito pubblico costruttivo. La “secolarizzazione” della comunicazione ha permesso a tante voci di essere ascoltate e rappresentate, contribuendo a una maggiore divergenza di visioni ed esperienze. Questa possibilità democratica ha anche aperto la porta a fenomeni come la disinformazione, l’odio online, l’intolleranza e la discriminazione che possono compromettere la coesione sociale e il dialogo civile. Ecco che il politically correct viene adoperato proprio come risposta a queste sfide, poiché cerca di promuovere il rispetto e l’inclusione nelle interazioni online/offline.

Tuttavia, la natura impersonale dei social media favorisce comunque aggressività e polarizzazione, portando un clima di censura autoimposta e paura di esprimere opinioni pungenti per timore di essere attaccati. Per evitare tale problematica, la risposta, a parer mio, è sempre e solo una: educazione. Educare al rispetto delle differenze conduce a un naturale approccio con esse. I linguaggi discriminatori traggono la loro origine dalle radici culturali del nostro Paese. Una tradizione convergente, chiusa nella sfera delle ideologie solide che prendono spunto dalla tradizione cattolica, e non solo. Non a caso, i ferventi sostenitori del “pensiero unico” sono estremamente radicati in tale visione. La loro chiusura di pensiero li porta a ignorare che siano essi stessi promotori delle loro paure. È tramite esse che si esprimono. A tal proposito, è importante considerare anche il contesto sociopolitico in cui si manifestano questi fenomeni, spesso alimentati da una certa fazione di Destra.


Le persone possono trovare sicurezza attraverso l'adesione a narrazioni semplificate o ideologie rigide. Questo può alimentare il conformismo e la chiusura mentale, impedendo la capacità di accogliere la complessità e la diversità. I sostenitori del “pensiero unico” sono quindi i primi a adoperarlo, a voler ricondurre la vita, così complessa e ricca di sfumature, in un’unica convergenza prestabilita, sbandierando la sempre verde e involuta posizione del “naturalmente normale”[1].


Di diverso avviso, la cancel culture, intesa come la pratica di ostracizzare o isolare individui o gruppi per le loro opinioni o comportamenti considerati ormai inaccettabili, può essere effettivamente problematica se non accompagnata da un’analisi critica e dalla possibilità di redenzione. In Italia il termine viene utilizzato per descrivere una serie di fenomeni sociali legati alla cancellazione o alla repressione di contenuti considerati controversi. La cancel culture funge da spettro per diverse situazioni, tra cui: l’iconoclastia, la censura preventiva degli editori e le polemiche riguardanti le favole o i racconti tradizionali. La sua applicazione eccessiva può trasformarsi in un meccanismo che limita il confronto culturale e la crescita individuale e collettiva, scontrandosi con la storiografica. A tal proposito, lo storico Alessandro Barbero afferma:

«studiamo George Washington non perché pensiamo “che grande uomo era, vorrei essere come lui”, ma perché pensiamo che conoscere il passato della nostra specie su questo pianeta sia una cosa utile, forse perfino necessaria […] Se le cose stanno così, e non dovrebbero stare così, posso capire lo shock di chi, poco dotato di strumenti critici, scopre che la grande opera esprime anche pensieri o valori non uguali ai nostri. Scopre che il grande uomo possedeva schiavi e allora va nel panico perché non dispone della maturità critica per dire “ma chi se ne frega! non è mica per quello che io lo studio”. Io non studio mica i greci perché vorrei che il mondo fosse ancora come ai loro tempi, ma studio i greci perché hanno prodotto delle cose fondamentali senza conoscere le quali sono più indifeso nel capire il mondo»[2].

Le considerazioni socioculturali ci spingono a riflettere su come affrontare in modo costruttivo i dilemmi legati al politically correct e alla cancel culture. Tuttavia, a mio avviso, i fenomeni non sono comparabili per le ragioni espresse. Se da un lato, infatti, l'utilizzo del politically correct nasce come mezzo per proteggere le persone, specialmente nel contesto del web, che è accessibile a tutti e può avere un impatto diffuso; dall'altro lato, la cultura della cancellazione, o cancel culture, pone invece dei limiti alla conoscenza collettiva poiché implica la rimozione di informazioni anziché favorire il dialogo e la comprensione reciproca.


È essenziale promuovere una cultura del dialogo aperto e del rispetto reciproco, incoraggiando la critica costruttiva e l'ascolto empatico. Inoltre, è necessario investire nell'educazione digitale e civica, per aiutare le persone a sviluppare le competenze necessarie al fine di navigare nel panorama mediatico in modo responsabile, senza strumentalizzare i meccanismi di protezione.


[1] Etimologicamente, il termine normale deriva dal latino "normalis", significante regola o modello. Quindi, è correlato alla conformità a una regola o a uno standard stabilito. È la parola che piace di più ai sostenitori del pensiero unico. Domandiamoci dove risiede il bug: sono proprio loro stessi a volere un unico pensiero “normato”. 

[2] Visualizza il video per ascoltare Alessandro Barbero - Politically Correct e Cancel Culture


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