Ogni scrivente esercita un’enorme libertà creativa nell’atto di comunicare. Un aggrovigliato mix di pensieri si affaccia e preme perché sia reso alla scrittura, ma nell’ansia del tradurre quanto si ha dentro, qualcosa inevitabilmente si perde mentre qualcos’altro si trasforma durante la traduzione simultanea: "tradimento" inevitabile da pensiero a parola scritta.
Il più delle volte la fattura, la stoffa, di uno scritto è intrinsecamente connessa alla vastità e alla qualità del vocabolario di cui si è dotati: maggiore sarà il numero di parole immesse nel corso degli anni più ricco, articolato e preciso sarà il pensiero. Dunque, anche la parola scritta, sebbene non necessariamente “bella”, ne trarrà giovamento, sebbene la bellezza di uno scritto resti una chimera, un miracolo, qualcosa di mistico e di estremamente pragmatico al tempo stesso. Un giudizio di valore, un giudizio estetico, una critica letteraria: quanti fattori contemplano? Tanti, davvero. Eppure, prediligere una voce rispetto ad un’altra, ha a che fare principalmente con le emozioni che uno scritto è in grado di suscitare.
Ogni digitante si ritrova intrappolato nei confini del proprio sentire. Gli obiettivi di partenza possono mutare durante la composizione: molteplici istanze e pressappoco infiniti argomenti potranno diventare testo, che si spera valga la pena d’esser letto. Esiste una proporzionalità diretta tra la possibilità creativa e l’esigenza comunicativa: ordinare e trascrivere concetti correlati o antitetici è, forse, la parte più complessa e affascinante. Nel frattempo, come dimenticare il patto non-detto e implicito tra chi scrive e chi legge: anche qui, quante e quali dinamiche si affastellano di default, come ad esempio l’imprevedibilità dell’interpretazione, l’incostanza dell’attenzione e l’imprescindibile libertà di appropriazione del leggente. Ecco, nuovamente riemerge il limite, parte integrante della nostra natura.
La comunicazione tra umani, che cosa arcana e stupenda, fa del tutto per superare il confine dell’io, senza forse riuscirvi mai completamente: Pirandello ne ha fatto uno dei punti nodali della sua produzione, cristallizzando in formule intramontabili l’incomunicabilità del ‘900. Un’incomunicabilità che sembra estendersi e dilatarsi, raggiungendo la contemporaneità, in ogni ambito comunicativo: si pensi, ad esempio, all’incomprensibilità di un decreto, di una norma, di un contratto. Il burocratese e l’oscurità che si porta dietro crea ambiguità ermetiche di altissima foggia, c’è da complimentarsi con questi anonimi artisti della parola inespressiva-fattiva. In sostanza, fuggitivo e braccato dalle circostanze comunicative, l’io si muove all’interno del mezzo espressivo prescelto (nel caso specifico, la scrittura), condendo a piacere la propria “opera”: stile, tono, argomentazioni, focus e conclusioni. Ci si misura con grafemi, fonemi, costrutti: architetti del dire, andiamo componendo strutture vincolate da leggi non sempre chiare, influenzati da quel che si cerca di trasmettere.
Per iscritto si ha il vantaggio della sospensione temporale: signoreggiamo con la temporalità e danziamo funambolici tra passato, presente e futuro. Confesso, questa, di tutte le opportunità offerte dallo scrivere, è quella che in assoluto prediligo. Ma qual è il limite dei limiti in cui incappo? Forse per formazione, per educazione e chissà cos’altro, quel che più rischia di atrofizzare il mio pensiero è il vincolo dell’esattezza: il “vincolo sacro” contro cui si arena ogni mia galoppante fantasia, ovvero il perimetro del significante. Un muro di cemento armato, coronato da filo spinato: la licenza poetica equivale al libero arbitrio, una magnifica illusione.
Il significante definisce e circonda il perimetro dell’estro creativo, prima ancora che questo abbia approntato una strategia in grado di evadere da stilemi precostituiti e possa raggiungere gli occhi e il cuore (se al cuore il testo stia puntando) di chi legge. Il rigore e la coerenza non sono affatto nemici di chi scrive, tutt'altro: sono alleati insostituibili, senza si produrrebbe soltanto un bel guazzabuglio, un impasto slegato e indigesto. Scrivere è un’azione concreta che si avvale dell’astratto per concretizzarsi, ed è un lavoro nobilissimo e di grande maestria, svilito da un forte preconcetto sociale, ultra-radicato e multiculturale. All’apparenza, chiunque abbia frequentato la scuola dell’obbligo potrebbe scrivere, così come chiunque ne abbia voglia può mettersi ad impastare, improvvisando un dolce o una bella pagnotta. Niente, però, è mai come sembra. E così come di ricette ne esistono a iosa, con indicazioni chiarissime, dosi prestabilite e collaudate da una tradizione plurisecolare, questa libertà d'azione non fa di chiunque impasti un pasticcere né un panificatore. Continuando con l'analogia, vien da chiedersi che cosa renda uno scrivente scrittore. Dubbio amletico e persistente. Altresì, mi sfugge la ricetta per un buon testo, sebbene mi siano noti gli elementi ricorrenti e caratterizzanti dei vari generi letterari. Pensandoci, mentre per le pietanze culinarie è immediato cogliere il perché vengano realizzate, non è altrettanto univoca e chiara la ragione che spinga da millenni alcuni umani a scrivere. Alcuni direbbero vanagloria, urgenza comunicativa, terapeutico abbandono all’io lirico che alberga in ognuno, senso di responsabilità e voglia di farsi interpreti del presente… Vai a capire, c’è da perdervi il sonno! All’origine di qualsiasi manifestazione umana arde un desiderio. Un’aspirazione preminente che sappia tradursi in realtà, facendosi strada nel mondo. Incredibilmente simile e riconducibile ad un bisogno primario: una sorta di vocazione, una meditata costruzione verbale in cui ospitare qualcun altro. La scrittura è, dunque, tra le manifestazioni umane quella che forse più di ogni altra desidera accogliere e donare: un moto perpetuo, inesausto, simile alle onde del mare.
Nutrirsi di parole e preparare “piatti” per la mente propria e altrui. Ingrediente immancabile è il principio dell’intelligibilità, qualsiasi cosa si desideri, appunto, comunicare.
L’inesattezza, infine, fa il resto: un’inesattezza studiata, fittizia, artefatta che restituisca verità alla realtà effettuale delle cose così come la percepisce la voce narrante. Mi sono interrogata spesso sulle sbavature delle vite che mi circondano, oltre che sulla mia, e ahimè, mi sono scoperta innamorata dell’incongruenza, dell’imprevisto, dell’entropia a cui ognuno fa fronte come può, con quella perseveranza che ritengo serva a riconoscere e a distinguere lo scrivente dallo scrittore. Al primo manca l’amore per la parola, il periodare, parte di un codice che ha un suo rigore interno, delle regole preziose e storicamente condivise. Ho appreso dai libri, dagli autori e dalle autrici, oltre che dai docenti incontrati, ad avere cura dell’espressione, che non a caso ha molto a che fare con le scienze matematiche, in una stringente reciprocità disciplinare stupefacente. Sì, ma dov’è che voglio andare a parare, allora, con questo elogio?
Da nessuna parte, in particolare, in barba a quanto appena affermato: perché l’esatto non va espresso e perché è un elogio aperto. Incasellare è diventato il passatempo preferito della nostra epoca: ciò che sfugge all’onnipotente algoritmo viene emarginato a priori. Meritano davvero d’essere indicizzati solo i pensieri che sappiano tradursi in guadagno? Che diventino materia scritta solo quei pensieri che sappiano passare attraverso il conio, ossia il bilancino capace di tarare e prezzare quel che per natura prezzo non ha? La scrittura evoca, recupera e salva il valore immenso della nostra unicità, regalandoci una parvenza d’eternità.