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Dalla guerra alla giustizia sociale nel dialogo sanscrito di Arjuna e Krishna

Nel poema epico sanscrito, Mahābhārata, nella parte chiamata Bhagavadgītā (in breve Gītā), si svolge un dialogo tra il guerriero Arjuna, l’eroe invitto del poema indiano, e Krishna, suo amico e consigliere, ritenuto un’incarnazione divina.

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Subhadra,_the_half_sister_of_Krishna,_drives_a_chariot_away_from_Dwarka_with_Arjuna_and_Krishna_inside.jpg

Il tema è la guerra. Siamo alla vigilia della grande battaglia di Kurukshetra, non lontana da Delhi. Arjuna dà voce ai suoi profondi dubbi sull’idea di guidare uno scontro che provocherà un massacro, Krishna, il suo auriga, gli risponde che deve dare la priorità al dovere di combattere, senza curarsi delle conseguenze. La causa è giusta e Arjuna, come guerriero e generale su cui la sua fazione fa assegnamento, non può venire meno ai propri obblighi. Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia, in L’idea di Giustizia, analizza le due posizioni diametralmente opposte e rileva quanto entrambe, al di à del tema guerra, rappresentino due diverse e distanti prospettive di costruzione di una teoria di giustizia sociale.

 

L’economista indiano osserva che la Bhagavadgītā è diventato un testo di primaria importanza teologica nella filosofia hindu, soprattutto per le argomentazioni che rimuovono i dubbi di Arjuna e che la posizione morale di Krishna ha ricevuto l’appoggio di molti filosofi e critici letterari. Nei Quattro quartetti Thomas Stearns Eliot ne riassume la prospettiva in questi termini: «E non pensate al frutto dell’azione./Andate avanti./Non addio,/ma avanti, viaggiatori». Tuttavia basta uscire dallo stretto orizzonte delle battute conclusive della Bhagavadgītā e guardare alle sezioni precedenti, dove Arjuna espone i suoi argomenti, o considerare il Mahābhārata nel suo complesso, per vedere i limiti della prospettiva di Krishna.

 

Il Mahābhārata si chiude in modo tragico, con un lamento sulla morte e sul massacro. Al trionfo della «giusta» causa si accompagnano angoscia e dolore. Inoltre, nella battaglia di Kurukshetra si fronteggeranno i Pandava, virtuosa famiglia reale guidata da Yudhisthira (fratello maggiore di Arjuna e legittimo erede al trono), e i Kaurava, loro cugini, usurpatori del regno. A favore di entrambe le parti si schierano quasi tutte le famiglie reali dell’India. Arjiuna è angosciato quindi perché consapevole della tragedia che sta per battersi su quelle terre e anche della responsabilità che egli si assumerà uccidendo altri uomini, incluse persone a lui legate, per cui prova affetto.

 

Si potrebbe interpretare questa posizione in termini conseguenzialisti, cioè di chi si preoccupa solo delle atroci conseguenze della guerra. Come allo stesso modo è possibile intendere l’esortazione di Krishna a compiere il proprio dovere in una prospettiva deontologista. Ma Sen avverte di non lasciarsi ingannare. A dispetto dell’estremismo di Krishna, caratterizzato da un purismo formale, un deontologista serio, che prende le mosse dai doveri, indipendentemente dagli esiti, non può non tener conto comunque delle conseguenze. E un esame attento di ciò che implica l’insieme delle preoccupazioni di Arjuna ci permette di andare oltre a un mero conseguenzialismo e di cogliere l’importanza che la sua riflessione riveste nella determinazione delle istanze di giustizia sociale.

 

Negli antichi scritti etici e giuridici sanscriti, secondo Sen, si possono distinguere due concezioni di giustizia: nīti e nyāya, entrambe con lo stesso significato. Tuttavia il primo ha a che fare con l’adeguamento di un’organizzazione (o di un’istituzione) e la correttezza dei comportamenti, ed è su di esse che si concentra la posizione di Krishna. Un po’ simile al fiat iustitia, pereat mundus di Ferdinando I. Arjuna invece, a cui questo mundus sta a cuore, mette in discussione tale nīti e si interroga sul nyāya della società che emergerà dalla battaglia. L’idea di giustizia realizzata del nyāya è infatti legata alla comprensione del mondo così come è fatto e non solo alle istituzioni e alle regole date.

 

La rilevanza del mondo reale è uno dei tre aspetti che Sen fa emergere dal cuore del ragionamento di Arjuna, ciò che accade in esso non può non interessare in modo significativo la nostra riflessione politica e morale. Ed è collegato alle «concrete realizzazioni sociali» e all’«importanza della vita umana.» Il secondo aspetto riguarda la responsabilità personale: «Arjuna afferma che un individuo, le cui decisioni determinano gravi conseguenze, deve assumersi in prima persona la responsabilità degli effetti delle sue scelte.» Infine, ciò che inquieta l’eroe è l’idea di dover uccidere persone a lui care, evocando così le relazioni personali che lo legano agli individui coinvolti in un’azione. Per Sen questa è una «preoccupazione posizionale»: il terzo aspetto.

 

La prospettiva di “giustizia” di Arjuna dunque va oltre al conseguenzialismo, concentrato solo su «esiti conclusivi», cioè sulle conseguenze, sulla situazione che risulta da una qualunque decisione presa o che si sta prendendo, perché la sua riflessione morale e politica è sensibile agli esiti nella loro forma comprensiva: cioè a «esiti comprensivi», la comprensione dei processi che hanno condotto a una determinata scelta e al suo risultato. Nel delineare una teoria di giustizia sociale valida, questa prospettiva si presenta più ampia di quella di Krishna. Nel valutare quanto accade nel mondo, cioè alla giustizia in termini di nyāya, bisogna considerare ogni aspetto, quelli relativi ai soggetti convolti e alle loro vite, tanto quanto quelli da essi indipendenti. Il giudizio sulle loro rilevanza e importanza deve essere strettamente legato all’esame personale e al confronto pubblico, necessari a un accertamento dei requisiti di ragionevolezza.

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