La teoria del filosofo coreano, trapiantato a Berlino, Byung-Chul Han nel suo libro La società della stanchezza, sostiene che siamo passati dallo sfruttamento della società disciplinare, quella che contrappone il capitalista al proletario (se vogliamo usare termini marxiani), all’autosfruttamento dell’odierna società della prestazione in cui domina la visione del mondo neoliberista.
A mio parere non credo che lo sfruttamento sia del tutto scomparso e sostituito da un’ansia della prestazione autoimposta, ciononostante la mia esperienza nel mondo del lavoro, mi fa propendere per accogliere con un certo interesse e una certa inquietudine questa teoria. Per non limitarmi alla mia esperienza personale, utilizzerò i dati sull’assenteismo per malattia in Italia perché sono utili per tante riflessioni ma anche per sostenere che c’è un fondo di verità in quanto afferma il filosofo coreano.
Lo spunto nasce da uno studio della CGIA di Mestre con i dati INPS sul tasso di assenteismo medio per malattia in Italia, con dati regione per regione. Senza entrare troppo nel dettaglio, lo studio riporta un tasso medio di 8,5 giorni all’anno nel 2023 su scala nazionale, con differenze regionali e numeri più alti nel pubblico impiego e più bassi nel privato, soprattutto nelle PMI. La cosa che potrebbe sembrare più sorprendente di questi dati è che, confrontandoli col resto d’Europa, l’Italia si pone tra i Paesi con il più basso tasso di assenteismo.[*]
Ciò sarebbe già sufficiente per sfatare il mito della scarsa propensione al lavoro degli italiani. Se a questi dati volessimo affiancare quelli sulla quantità di ore settimanali prestate dai lavoratori dipendenti, scopriremmo che in Italia la settimana corta è ancora di là da venire e siamo tra i Paesi in cui si fanno più straordinari, senza che questo dato contribuisca, purtroppo, all’incremento del reddito pro capite.
Possiamo leggere questi dati in molti modi, naturalmente, ma dal mio punto di vista non ci restituiscono segnali solo positivi. Certo, l’inclinazione al sacrificio è encomiabile, ma è il modo migliore per valutare la dedizione al lavoro? Siamo veramente migliori degli altri perché lavoriamo di più, siamo meglio disposti a fare gli straordinari o a recarci al lavoro in condizioni di salute magari un po’ precarie, rinunciando ad un diritto acquisito?
La mia esperienza personale, mi fa affermare che in Italia si tenda ad associare la dedizione e la passione per il proprio lavoro con la quantità in termini di ore e giorni di presenza. Questo avviene sacrificando tempo dedicato alla vita personale. È una mentalità divisa equamente tra i lavoratori, a tutti i livelli e mansioni, e chi gestisce le aziende. Magari i punti di vista e gli interessi sono differenti, ma non mi sento di addossare tutta la responsabilità di questa mentalità sulla classe imprenditoriale. Si pone ancora poco l’attenzione sulla qualità della vita rispetto a considerazioni di carattere economico, e ciò non riguarda solo chi è costretto ad accettare delle condizioni sfavorevoli per necessità e quindi a lavorare di più, ma anche chi si trova avvantaggiato da condizioni contrattuali di maggior tutela.
Già il fatto che se ne parli e che ci siano alcune aziende che implementano politiche di welfare e riduzione dell’orario di lavoro, potrebbe essere un segnale che qualcosa si stia muovendo in senso opposto. Spero solo che questi segnali siano indice di un vero cambiamento di prospettiva, piuttosto che un modo per farsi una facile pubblicità o, magari, togliere consenso ai Sindacati. In questo caso non si tratterebbe di una svolta autentica, ma di un cambiamento solo di facciata.
Tutte considerazioni che mettono in risalto i punti forti, ma anche quelli deboli del tessuto produttivo italiano, fatto soprattutto di PMI. Ma se questi dati ponessero l’Italia come una delle avanguardie, nel ricco Occidente, del pensiero unico neoliberista? In questo scenario, secondo Byung-Chul Han lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sarebbe superato da un autosfruttamento volontario, che metterebbe per forza di cose sullo stesso piano lavoratori dipendenti, liberi professionisti, e imprenditori, in una ricerca della prestazione che non ha limiti se non quelli del burnout.
La domanda finale che lascio aperta è, siamo veramente i carnefici di noi stessi o c’è una via d’uscita?