top of page

All’origine dei dazi

Il 2 aprile 2025 Trump, munito di lavagna nel Rose Garden della Casa Bianca, davanti ad un variegato pubblico plaudente, ha presentato al mondo il Liberation Day. È stata inaugurata una nuova guerra commerciale, senza quartiere e senza vinti né vincitori. Sono stati colpiti oltre cento soggetti. Dalla Cina all’UE al Vietnam, Paese più penalizzato sebbene sia fondamentale per Washington tenerlo vicino in ottica anticinese. Si devono aggiungere anche le isole Heard e McDonald, abitate solo da pinguini, e l’isola di Diego Garcia, base della marina americana in cui risiedono esclusivamente militari statunitensi. L'isola di Norfolk, con una popolazione di 2.188 persone, a 1.600 km a nord di Sydney, è stata colpita da dazi che toccheranno addirittura il 29%. Nessuno è stato escluso, o meglio, uno sì, la Russia, ma vedremo perché non è stata colpita.

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:The_White_House_-_54427036291.jpg

L’iniziativa trumpiana ha in Howard Lutnick, consigliere economico di Trump, il principale alfiere, ma non ha il sostegno di tutta l’amministrazione. Ad oggi, 8 aprile, sembrano probabili le dimissioni di Scott Bessent, Segretario del tesoro, ma anche Musk è molto scettico. Dal collegamento al congresso della Lega, si è auspicato la fine dei dazi e la creazione di una zona di libero scambio tra Europa e America.

 

Il primo motivo, che lo stesso Trump ha ripetuto innumerevoli volte, è riportare le industrie in America. Tra gli anni ’70 e ’80 gli Stati Uniti hanno iniziato a delocalizzare la produzione industriale in Cina per mantenere bassi i costi produttivi e al consumo. La chiusura delle industrie americane ha inevitabilmente impoverito larghe fasce di popolazione, concentrate principalmente nel Midwest gravemente depresso e sfiduciato, che si sente escluso dal “sogno americano” e che da anni è forse il principale bacino di voti di Trump. Gli USA da decenni sono importatori netti anche per altri due motivi. Far sì che il dollaro sia la moneta di riserva mondiale, per consolidare la propria egemonia, ha dei costi. Gli Stati Uniti devono avere un costante deficit commerciale con gli altri Paesi – si pensi al caso del Vietnam, nei cui confronti il deficit commerciale nel 2024 ha raggiunto i 136 miliardi di dollari – per far circolare la propria moneta. In breve, si deve importare molto più di quello che si produce. Il secondo motivo per cui gli USA sono importatori netti è legare a sé i propri satelliti - o alleati che dir si voglia - e anche gli altri soggetti, da integrare nel sistema economico capitalistico. L’America doveva essere il centro del sistema, indispensabile.

 

Trump sembra essere disposto a scardinare questo sistema per riportare la produzione in America – cosa che, almeno nei settori dell’energia rinnovabile e della produzione industriale green, anche Biden aveva fatto con l’IRA (inflation reduction act) investendo 740 miliardi. L’offensiva commerciale trumpiana per l’America, sempre che duri, ha come conseguenza il venir meno del ruolo di centro del sistema a tutti i costi. Il primato mondiale, che implica l’investimento di enormi risorse sostanzialmente ricevendo poco o nulla in cambio, non sono più un’opzione per gli Stati Uniti. Washington ha interessi geopolitici e risorse concentrati sull’Indo-Pacifico. Dunque, i dazi diventano un’arma per costringere alla trattiva quei soggetti nelle aree di minor interesse, ottenendo un ritorno economico.

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:2025-April-02-so-called-Reciprocal_tariffs.jpg

Per quanto riguarda l’UE, le tariffe possono avere risvolti politici anche molto gravi. Per ora, i dazi al 20% sono stati applicati a tutti i membri dell’UE. Trump, però, favorisce sempre il dialogo bilaterale. Sebbene le politiche doganali siano di competenza esclusiva dell’Unione, non è esclusa una rinegoziazione dei dazi con quei Paesi europei pronti a concedere qualcosa. Ciò spaccherebbe l’Unione. Considerata l’incapacità dell’UE di rispondere efficacemente in modo unitario, il rischio spaccatura è concreto. Impedire un’Europa strategicamente autonoma, soggetto geopolitico, è sempre stato interesse americano. Prima però Washington perseguiva ciò rendendo i Paesi europei dipendenti dalla propria economia e dalla difesa americana. Oggi Trump, sebbene a livello militare non abbandonerà completamente l’Europa, sembrerebbe voler soltanto indebolire economicamente gli europei.

 

Vi è poi un’altra motivazione per la quale Trump ha preso la via dei dazi, meno evidente: accelerare il decoupling. Il decoupling, o disaccoppiamento, è un processo volto a ridurre i legami economici con un Paese per limitare la propria dipendenza dall’estero. Il decoupling è rivolto, sin dalla prima amministrazione Trump, Biden compreso, in primis alla Cina, ma in generale alle catene del valore estere in settori chiave, come le tecnologie avanzate (semiconduttori, AI, 5G). Non solo Cina appunto, i cui dazi hanno raggiunto il 54%, ma anche altri Paesi centrali nella catena delle tecnologie avanzate, come Taiwan, a cui sono state applicate tariffe al 32%. Anche il caso di Taipei è la rappresentazione della volontà americana di rendersi indipendenti dall’acquisto di microchip da terzi. Il problema però è che gli USA non hanno le materie prime per rendersi indipendenti nel settore dei chip.

 

Per Washington, accelerare il decoupling ha un obbiettivo: prepararsi nel breve-medio periodo a sostenere un conflitto con Pechino. Se l’interdipendenza economica con la Cina fosse così elevata, gli USA non potrebbero mai affrontare una guerra con l’avversario da cui la loro economia in buona parte dipende. L’America deve essere indipendente riducendo al minimo le implicazioni economiche.

 

In apertura si parlava della Russia, grande assente nell’elenco dei Paesi colpiti dalla scure dei dazi. La motivazione addotta è stata che nel 2024 il volume degli scambi tra Stati Uniti e la Russia è stato quasi irrilevante, pari a 3,5 miliardi di dollari: rispetto all’anno precedente, le esportazioni americane sono diminuite del 12,3% e le importazioni del 34,2%. L’esclusione della Russia è stata accompagnata dalla non inclusione nei dazi dei settori delle materie prime energetiche e dei metalli critici, come litio, uranio, tungsteno. Tanto le une quanto gli altri centrali nell’export russo, a livello globale e in direzione Stati Uniti. La ragione di escludere dai dazi la Russia e questi settori è avvicinare Mosca facendo concessioni per separarla da Pechino. Riedizione della diplomazia triangolare portata avanti da Kissinger negli anni ’70, ma al contrario, visto che allora fu il regime comunista cinese ad essere avvicinato.

 

Ora il momento storico è diverso. Un decoupling totale, nei confronti della Cina e in generale per rendersi più o meno indipendenti, è quasi impossibile da perseguire. Sebbene russi e cinesi vadano poco d’accordo, considerandosi l’uno superiore all’altro e avendo mire territoriali in contrasto (vedere la Siberia e il confine tra i due Paesi), pensare di separare la Russia dalla Cina è un azzardo. Non si ha molto da offrire ai russi, a differenza della Cina tra gli anni ’70 e ’80, integrata via via nel sistema economico americano permettendole una crescita altrimenti impensabile. In questo modo l’America genererebbe nella Russia una percezione di ulteriore debolezza oltre alla crisi interna, come se dovesse elemosinare aiuto a Mosca. E la percezione, nei rapporti di forza, conta.

 

Con tutte queste profonde incognite, oltre al rischio concreto di stagflazione negli USA, forse l’unico risultato realisticamente raggiungibile da Trump è aumentare, solo nell’immediato, il proprio bacino elettorale negli Stati in cui rilocalizzare le industrie. Magro risultato.

G. Edward Johnson, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
G. Edward Johnson, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Unisciti ai canali

  • Instagram
  • Facebook
  • Whatsapp
bottom of page